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Il lavoro da casa durante il lockdown, tra stress e produttività. Quanto e come siamo cambiati durante la pandemia?

 

Quante volte vi è capitato di ascoltare le espressioni “che stress”, “oggi mi sento stressato”, “sono sotto stress”? Ogni persona intende lo stress in maniera soggettiva e per questo diversa. Generalmente viene associato a una situazione di difficoltà più o meno intensa e a conseguenze potenzialmente negative per noi stessi, per la nostra salute sia psichica che fisica. Eppure è una delle soft skills più richieste.

La condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa ed è stato stimato che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% delle giornate lavorative perse in un anno, è correlata allo stress lavorativo. La gestione dello stress in ufficio è una delle soft skills più apprezzate sul posto di lavoro e permette di migliorare le condizioni di salute con relativo beneficio sia sociale che aziendale. Sì, ma a che prezzo per il lavoratore?

Infatti, nella nostra società, sempre di corsa e frenetica, diventa facile pensare allo stress come a un’evitabile condizione da cui non si può sfuggire in virtù dei modelli imposti che ci vogliono con vite al top, felici, sorridenti e già svegli dalle 5.00 del mattino con una morning routine da urlo. (Ci ho provato senza risultati!)

Se non fosse che lo stress porta spesso non in modo silente a un vero collasso emotivo ed energetico dovuto al troppo impegno, al voler dare il massimo in una società che ci vuole efficienti. È la cultura dell’efficienza che ci domina: se uno sforzo non produce risultato allora bisogna lasciar perdere o tutto al più spinti da forze esterne tentare e ritentare per dimostrare di valere.

Durante il lockdown abbiamo dovuto reinventarci, singolarmente ed esclusivamente da casa seppur con vincoli di contratto quali orari, timbratura cartellini, ecc. Tuttavia, almeno nel primo periodo pandemico ma anche nel successivo molte aziende hanno richiesto ai lavoratori tale modalità di lavoro non salvaguardando le problematiche a causa di possibili infortuni, malattie, incidenti richieste dalla normativa del D. Lgs 81/2008 in materia di Home Working. 

Effetti e rischi connessi allo Smart Working

 Sembrerebbe che con il cambio ritmo da presenza fisica in ufficio a presenza in telelavoro il rischio sia che non si stacchi mai, non ci si disconnetta mai essendo virtualmente sempre disponibili. E-mail a flusso continuo sullo smartphone, chiamate a qualunque ora, tutto questo sembrerebbe concesso in virtù di quella necessità di efficienza che ci mette di fronte a un problema: in Italia non esiste la cultura consolidata del telelavoro. Basti pensare ai rischi domestici, ai rischi elettrici, ai rischi fuoco e gas…o ancora alle ricadute pratiche, in termini di spesa e disturbi fisici legati a postazioni domestiche inadeguate. Lo SW fa sentire in dovere di essere sempre disponibili con un’ansia costante da prestazione.

Ultimamente, a causa di un non breve periodo di malattia da lavoro e dagli impegni quotidiani sto impiegando tempo e risorse per ritornare “spumeggiante”, studiando, facendo un viaggio temporale negli ultimi due anni, leggendo articoli scientifici e anche concedendomi del riposo, ho imparato che quando il corpo non ne può più bisogna ascoltarlo, non silenziarlo. 

Ritornando al focus dell’articolo, ho chiesto pareri riguardo le diverse tipologie di stress e come quest’ultimo possa essere utilizzato come una risorsa anziché come uno svantaggio.
Infatti, durante la pandemia per l’Osservatorio del Politecnico di Milano lo smart working (lavoro agile) ha rappresentato “una nuova filosofia manageriale” fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Tuttavia, come tutte le nuove modalità ciò ha avuto dei pro e dei contro. Dal punto di vista psicologico, lavorare da casa ha comportato un fattore di rischio per la cosiddetta sindrome da burnout, ovvero “esaurimento”, dal punto di vista dei pro ha permesso di rimanere al sicuro da eventuali contagi.
È emerso che 2 lavoratori su 3, ovvero il 69% dei lavoratori, soffrono di burnout, il 20% in più rispetto ai mesi che hanno preceduto il lockdown.  Tenendo conto anche del fatto che la pandemia ha avuto e sta avendo effetti dirompenti in ogni ambito della vita sociale degli individui. È chiaro che lo stress sia una risposta naturale di attivazione di meccanismi neurochimici il cui scopo è mettere il soggetto in grado di reagire e affrontare le richieste e i cambiamenti posti dalla vita. Nello specifico, confrontandomi con un amico psicologo nel sociale ho scoperto che ci sono due forme di stress: l’eustress, ovvero lo stresso “positivo”, dal greco eu (buono), consiste in una attivazione fisiologica e psicologica che si attua in momenti di emergenza e che ci consente di dare il meglio non perdendo di vista concentrazione, attenzione e investimento delle nostre risorse per raggiungere l’obiettivo richiesto. 

Dall’altro lato, invece, esiste il distress, ovvero uno stato psicologico di stress prolungato, acuto, tangibile per il soggetto che lo subisce e costante che comporta una sofferenza psicologica e una serie di sintomi quali paura, ansia, insicurezza, timore di perdere tutto quanto si è raggiunto. 

Una sorta di languore, il lento consumarsi di energie e speranze. La difficoltà, in taluni casi sopravvenuta incapacità, di guardare avanti. Un affaticamento emotivo. È di questo sottile struggimento che, in epoca Covid, si sono ammalati molti. Anzi molte. Il problema, infatti, è particolarmente evidente nelle donne. Da un sondaggio Eurodap-Associazione europea per il disturbo da attacchi di panico è emerso che, con la pandemia, per il 73% delle donne sono aumentati impegni e stress. Per il 45%, è stato impossibile fare fronte a tutti gli impegni giornalieri. Secondo dati sulle ripercussioni del Covid, pubblicati dal Ministero della Salute, i casi femminili di depressione sono il doppio di quelli maschili. (Messaggero, maggio 2020)

Il multitasking era ed è all’ordine del giorno, l’overload informativo è un rischio quotidiano.

Non intendo parlare in questa sede in modo approfondito dei rischi psicosociali e dello stress lavoro-correlato in quanto non sono una professionista e non ho le competenze per farlo. Voglio piuttosto chiedermi, invece, da giovane donna, studentessa e lavoratrice full-time dall’età di vent’anni come mai in Italia il benessere dei dipendenti non è contemplato nella pratica, ma solo nella teoria.

Cosa dicono gli altri

Mi capita ogni giorno di confrontarmi con amici che lavorano in multinazionali ma anche in PMI e il sentiment è sempre lo stesso: poca attenzione al benessere psicologico dei dipendenti. Sembrerebbe quasi che il lavoro per gran parte delle aziende significhi rispondere alle aspettative dell’organizzazione tout court in termini di impegno e di performance, senza tenere conto di aspetti di rilievo per le persone che abitano le compagnie quali il benessere, la salute e la soddisfazione di coloro che operano sia collettivamente che individualmente. 

In un articolo interessante su Mashable Italia si legge che 

L’obiettivo dello smart working è rendere una persona più coinvolta nel suo lavoro e più responsabilizzata. “Questa modalità di lavoro va in direzione di curare la relazione fra il capo e il team: ci si mette d’accordo sul risultato e su come raggiungerlo il collaboratore ha piena autonomia. Questo significa molta fiducia da parte del leader”. Tutto ciò non sta avvenendo del tutto nella sperimentazione di questi mesi.

C’è un filo sottile e le aziende ci inciampano.  

Ho lavorato anche io in smart working durante il lockdown e ciò che ho avvertito tra la scrivania della mia camera e il tavolo in cucina è stata una totale mancanza di confini: la casa si è fusa con lo spazio professionale, quindi quello che dovrebbe essere percepito come un ‘posto sicuro’ viene inquinato da elementi esterni, a volte carichi di preoccupazioni.

È utile riprendere un rapporto del fenomeno lavoro da casa pre e post Covid19 svolto da INPS. Nello specifico, riguardo il rendimento produttivo percepito per fasce d’età risulta evidente uno spaccato tra le generazioni: 

Successivamente sono stati rilevati aspetti positivi e negativi dello SW e differenze per gli uomini e per le donne.  


Tale differenza di genere riscontrata nell’indagine potrebbe dipendere dal fatto che se da una parte il lavoro da remoto, in condizioni non di emergenza, potrebbe consentire una partecipazione maggiore femminile e un allentamento dell’impatto sulle carriere lavorative delle esigenze collegate ai ruoli di cura (famiglia, figli, familiari più stretti) almeno negli strati sociali a più alto livello di istruzione, mentre dall’altro lato nella fase iniziale della pandemia, potrebbe aver contribuito a consolidare i modelli di gestione del carico di lavoro in casa con un equilibrio migliore al fine di ottimizzare i tempi. 

Smart Working e performance lavorativa

Il lavoro da remoto è spesso considerato come un elemento capace di migliorare la performance dei lavoratori, dove gli effetti positivi sono associati all’aumento del grado di soddisfazione, a una maggiore concentrazione rispetto agli uffici fisici, a un migliore equilibrio tra impegni lavorativi e familiari. Mentre, nel periodo pre-Covid emergono diversi elementi di ambiguità. Ad esempio, come già indicato il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla disconnessione, ovvero al tempo di riposo, l’assottigliamento del confine tra spazio personale e spazio lavorativo, il senso di isolamento e la mancanza di confronto diretto con i colleghi o la condivisione di problematicità, sono elementi che possono avere un impatto negativo sulla performance lavorativa come rilevato dall’Eurofound and the International Labour Office.  

Più in generale, i telelavoratori indicano un incremento nella qualità percepita del proprio lavoro rispetto alle mansioni richieste per circa il 42% dei rispondenti, mentre per la maggioranza, ovvero il 47% l’efficacia del lavoro risulta rimasta invariata.  

Per concludere, il ricorso allo SW introdotto e indotto dalla normativa anti-Covid ha cambiato la vita quotidiana di milioni di lavoratrici e lavoratori, oltre che sul piano sociale dei giovani che hanno perso due anni di “socialità”. Migliorare la qualità della vita lavorativa del dipendente inciderebbe di gran lunga positivamente sul benessere organizzativo e la performance di impresa. Ecco perché il welfare aziendale andrebbe ripensato e migliorato ancora di più a supporto del benessere dei dipendenti dopo un periodo così duro per tutti. 

E tu che pensieri hai a riguardo? Qual è la tua esperienza? 

 

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