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Perché lavorare da freelance in Italia non è facile

Lavorare da freelance non è semplice, lo sa chi almeno ci ha provato una volta nella vita. Che tu lo abbia fatto per passione o per “arrotondare” non conta, perderai comunque la pazienza!
Ci sono decine di guide online su “come puoi lavorare da freelance”, “come essere un freelance senza partita IVA”. Ci sono decine di portali verticali dedicati ai freelance e a chi ne cerca uno in svariati campi, ma nessuno di questo ti avvisa che in Italia non è facile. Non è quel lavoro dinamico e con confini labili e impercettibili che molti dipingono. Vediamo perché.  

Un modo di lavorare diverso. L’Italia è il Paese dei freelance

Stando ai dati Eurostat riferiti al 2017, nell’Unione Europea gli occupati erano oltre 228 milioni, di cui circa 33 milioni erano lavoratori autonomi. In particolare, l’Italia occupa il secondo posto, solo dopo la Grecia, in fatto di lavoratori autonomi con il 23,8 %. L’età è compresa tra i 15 e i 64 anni. 

Fonte: Eurostat, 2017

 

I fattori che hanno contribuito alla crescita del numero dei freelance e dei liberi professionisti (con questi ultimi intendo coloro che non hanno un capo a cui sono subordinati) sono diversi, da una parte la mancanza del posto fisso che ha portato alla ricerca e allo sviluppo di nuovi modi di lavorare (scenario economico e sociale). Dall’altra parte, infatti, il lavoro da freelance viene indicato sotto il profilo legislativo come una sorta di impiego flessibile, con orari non fissi (a scelta del freelance), svincolato da una scrivania fissa in cui ovunque è possibile lavorare portando con sé il proprio laptop o IPad.

Il Codice Civile è chiaro in materia:

L’attività di lavoro autonomo di tipo occasionale trova il proprio fondamento giuridico nel “contratto d’opera” definito dall’art. 2222 c.c. Si può parlare di contratto di prestazione occasionale d’opera nelle ipotesi in cui un soggetto, verso un corrispettivo, si impegna a compiere un’opera o un servizio prevalentemente attraverso il proprio lavoro e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente e assenza di vincolo orario,  libertà nella scelta delle modalità tecniche di esecuzione del lavoro da parte del lavoratore.

Tenendo poi sempre conto poi di tre fattori fondamentali:

  • L’attività non può essere svolta per più di 30 giorni consecutivi per lo stesso committente in un anno;

  • Non si deve superare il fatturato annuo lordo di € 5.000 in un anno;

  • L’attività lavorativa non deve essere continuativa e organizzata con orari e sedi fisse.

Tuttavia, i freelance sono esposti a vulnerabilità del rapporto “indipendente e occasionale” che ne deriva, intendo dire che non ci sono garanzie che tutelino la condizione stessa di freelance. Rimando a un interessante articolo de IlSole24ore qui.

La mia esperienza da freelance

Ho provato ad essere una freelance in regola – e ci tengo a specificarlo – perché ho sempre consegnato i lavori che mi sono stati commissionati con regolare emissione di ritenuta d’acconto. Le cose in “nero” le lascio fare ai cugggini dei cugggini degli zii del committente. 
Imporsi dei limiti e rispettarli credo siano la via per la propria libertà professionale e personale.  I lavori svolti sono consistiti in progetti svolti con passione e dedizione. Nello specifico mi sono occupata di: di attività di consulenza web & comunicazione, copywriting (schede prodotti, articoli di settore, articoli giornalistici), miglioramenti perfomance siti web, creazione siti web info-vetrina, social media marketing per campagne adv e realizzazione eventi nell’ambito musicale.
Tutto questo è iniziato durante il mio percorso universitario e mentre già lavoravo part-time come digital marketer in una PMI. Ho voluto sperimentare questa tipologia di lavoro credendo potesse rendermi indipendente al 100% sotto l’aspetto pratico: niente orari fissi, niente costrizioni dietro a scrivanie, dato che di “prestazione occasionale insubordinata” si parla e pertanto posso svolgere i progetti dove e quando voglio. Ma questa è un’altra storia.

I committenti dei freelance.
Ne ho incontrati di diverse tipologie.
Alcuni mi hanno chiesto di “scontare” l’IVA, un po’ come si fa dal fruttivendolo di fiducia, questi chiedevano un tot. al chilo. Perché? Insomma per non dover pagare i contributi! Altri, invece, a progetto iniziato e bozza inviata scomparivano come risucchiati da un buco nero, nonostante l’accettazione del preventivo e l’anticipo consegnato. 
Un’altra caratteristica che continua ad accomunarli è la convinzione secondo la quale richiedere un servizio a un freelance equivalga direttamente alla subordinazione di quest’ultimo con vincoli di orari, reperibilità 20 h su 24 h come se il freelance non avesse una vita e altri lavori da svolgere, quando in realtà il Codice Civile è ben chiaro in materia, come visto sopra.
Una delle ultime collaborazioni occasionali è stata chiusa da me prima ancora dei 30 giorni lavorativi (come da C.C.) con la presentazione del lavoro portato a termine, che tra le altre cose non mi è stato pagato. Il committente è una persona alquanto camaleontica professionalmente e umanamente parlando. Avevo preso a cuore il suo progetto abbracciando anche un po’ quella che era stata la situazione raccontatami dallo stesso, un periodo buio in cui si era visto costretto a chiudere la web agency perché tradito dai suoi collaboratori pagati profumatamente.
Via di empatia e continuo ad ascoltare questa persona, iniziamo a dare forma al progetto che voleva realizzare, riscontri positivi, tutti felici ma nel frattempo la situazione si fa sempre più nera. Ad un certo punto mi accorgo che il committente in questione cercava qualcosa più di un freelance: uno psicologo? Un compagno di avventure?
Parlo di chiamate notturne del committente in questione in preda all’idea di aver trovato “la chiave del successo” per il progetto che stavo curando, per non parlare delle mail e messaggi che mi ritrovavo alla mattina alle 6.30 nella mailbox senza né capo né coda. In altre parole deliri di onnipotenza allo stato brado. Quando poi in modo carino gliel’ho fatto notare la risposta è stata “questo è il mio modo di lavorare, chi ha bisogno di lavorare è reperibile sempre”.
La mia risposta non è tardata ad arrivare, nonostante per me l’educazione e il rispetto siano alla base di ogni rapporto umano, quindi ho così risposto stanca dei suoi atteggiamenti:

Cara Sig.ra XX (sì, era una donna) nonostante la sua laurea in Giurisprudenza e i relativi master conseguiti in ambito di diritto e comunicazione di impresa di cui è solita vantarsi e, nonostante il suo estro, la sua esperienza e le competenze che vanta nei più svariati campi mi sembra che necessiti di freelance per produrre il lavoro che lei è tenuta a fare ma per il quale non sa far altro che raccogliere brief (e raccolti anche male) e incassare cospicue somme elargendo non servizi ma tante parole; tra le altre cose ho conosciuto i suoi vecchi collaboratori, incrociati per caso su LinkedIn (o Linketed come lo chiama lei) ed evidentemente quello di procacciare collaboratori che alla fine erano freelance costretti a vivere in una stanza che metteva loro a disposizione in affitto e farli svenare dietro alle richieste e atteggiamenti infantili è il suo modus vivendi. Vorrei ricordarle che il lavoro occasionale non è sinonimo di schiavitù e co-dipendenza. La vita mi ha insegnato che bisogna portare rispetto al prossimo come a se stessi, e anche qualcosa di più. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere meglio. Si tenga pure i suoi soldi, io tengo di più alla mia vita e alla libertà personale e lavorativa. Saluti. 

P.S.: ma lei esattamente cosa “imprende”?


 

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